Giuseppe CONDORELLI- Desolato ‘paesaggio’ hopperiano (“Due donne che ballano” al Teatro Stabile, Catania)
Il mestiere del critico
DESOLATO ‘PAESAGGIO’ HOPPERIANO
“Due donne che ballano”, prodotto dal Teatro Carcano di scena allo Stabile di Catania
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L’infelicità e la solitudine sono uno scaffale vuoto in una mattina qualunque di due vite qualunque di una casa qualunque, pure malandata.
E s’appicica una luce fredda in quelle camere disadorne. Una luce che cade dalla notte al giorno uguale, continua, lacerante. E’ la stessa luce perturbante e densa che irradiano le protagoniste de “Due donne che ballano” di Josep Maria Benet i Jornet, la piéce inserita nel cartellone dello Stabile etneo e prodotta dal Teatro Carcano di Milano.
Il titolo rassicurante (e come non pensare al western domestico e tragicomico de “La casa della nonna” di Nino Romeo) occulta paradossalmente gli incendi personali delle due protagoniste, le loro occasioni perdute, le tragedie impossibili da confessare.
L’una – l’anziana – che non si ricorda se la sua “è artrosi o artrite”, è avanti con gli anni ma non svampita: anzi, è un peperino; ciarliera, ex femminista (ex tutto), acida quanto è giusto, due figli più lontani che vicini (anche se si sforza di non ammetterselo) e solo una collezione di fumetti, venerati con cura maniacale, a tenerle compagnia. Almeno fino a quando irrompe l’altra – la giovane badante, imposta dalla figlia – muta e nervosa, scostante e anaffettiva, non troppo brava a celare un grumo atroce, un sentimento di avversione inespugnabile contro tutti e tutto.
L’incontro di queste due figure della modernità diventa allora un assedio (reciproco), un corpo a corpo fisico e psicologico sul campo di battaglia di un soggiorno piccolo-borghese, scaffali ordinati e ante che rigurgitano di medicine. Non si piacciono: e se lo dicono. Se l’una ha voglia di parlare l’altra si chiude in un mutismo irritante: si odiano quasi felicemente e si sopportano per motivi diversi.
L’anziana per stemperare una marginalità cui l’età e la vedovanza l’hanno definitivamente condannata; l’altra per guadagnarsi da vivere – oltre che con un saltuario ed effimero incarico di maestra – in una esistenza che non è tale, segnata da una tragedia irredimibile.
Due rette che Josep Benet, punta della drammaturgia contemporanea catalana, fa incontrare lungo un atto unico – firmato dall’asciutta regia di Veronica Cruciani – che non concede mai nulla al “teatro”, alla spettacolarizzazione delle private vicende delle due donne e che alterna ironia e tragedia esattamente come fa la realtà: naturalmente.
Due donne sostanzialmente, umanamente sole: i fantasmi di una famiglia che non c’è più (che non c’è mai stata?) e quelli di una ipotesi di viaggio a Parigi per la più anziana; la lacerazione, che continua ancora e ancora a sanguinare la perdita incolmabile di un figlio, per l’altra.
Da queste distanze abissali entrambe risalgono da sole, misurando l’una il tragitto uguale della casa-esilio; l’altra ad incastrare lavoro e disperazione e neanche uno sguardo al collega timido che la guarda sott’occhio: nei loro panni Maria Paiato e Arianna Scommegna,in un tour de force che non concede respiro, offrono affiatatissime, una prova intensa e toccante.
In un paesaggio domestico desolato, hopperiano (sottolineato dalle luci di Gianni Staropoli), comune denominatore una lucidissima disperazione, finiranno per incontrarsi, in un gesto gentile e disinteressato, lungo il calore di una carezza o nella spirale di un abbraccio troppo rimandato, decidendo di festeggiare quell’intimità completa che entrambe, finalmente insieme, si concedono, dopo un ballo, tra le braccia della morte.