Vincenzo SANFILIPPO- Medea, geometrie e passioni (Caterina Costantini elabora Euripide e Seneca. Teatro Planet, Roma)
Lo spettatore accorto
MEDEA , GEOMETRIE DELLE PASSIONI
Su testi di Euripide e Seneca Regia e adattamento di Caterina Costantini
Con Caterina Costantini ( Medea), Lorenza GuerrieriI (nutrice), Massimo Lello (Giasone), Giancarlo Di Giacinto (Creonte) Albertio Mancini (Nunzio), Coro: Vita Rosati,Giulia Marcaccio ,Alessandra Cedrone, Eugenio Difolco,Francesco Gargiulo. Scene G&P ; Costumi: Roma 86 Musiche a cura di Eugenio Tassitano. Roma, Sala Planet
Conflitti familiari similmente riportati dalle cronache sui delitti d’impeto di Novi Ligure, così come di quello di Cogne, sembrano ancora perpetuare la “sindrome di Medea” nella giovane madre siciliana “ indiziata” ( per cui ancora reputata innocente) d’aver ucciso il suo bambino. Probabilmente perché afflitta da un incompreso, straziato, universo emotivo procurato da una psiche disturbata. Sarebbe questo il movente accusatorio? Certamente le tensioni familiari diventano spesso “l’albero genealogico” delle discordie che nella maggior parte si evolvono in tragedia.
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Un’analisi dettagliata di questa Medea, improntata sulle geometrie delle passioni tra amore e ira, quale drammaturgia dialettica di differenti ragioni, ci conduce a riflettere sui diversi livelli dell’allestimento che si susseguono ordinatamente e si giustappongono con fedeltà “filologica” al chiuso ovattato di un perimetrato palcoscenico – luogo geometrico – della tragedia, che si ri-presentifica ancora oggi materialmente e idealmente a un pubblico contemporaneo.
A porre l’interrogativo su questa inquietante omologa “sindrome” è Caterina Costantini, in scena alla Sala Teatro Planet, la quale produce una drammaturgia su Medea in grado di delineare i moventi, le ragioni efferate, in quanto cruenti o sadicamente violenti, che possano portare a tali condotte, ponendo innanzitutto l’intelligibilità delle parole dei testi, in cui la tragedia narrata tramanda il lato orribile, deviato e disturbato dei rapporti familiari e dei legami di sangue.
Descrivendo quest’allestimento dobbiamo innanzitutto lodare le coordinate di regia che curano non solo l’attendibile sonorità nei ritmi recitativi con le differenti vocalità, ma anche amplificano i diversificati portamenti coreografici con accurate geometrizzazioni di tableaux vivant che, trasformando ogni corpo attorale nei Personaggi, dietro i quali scompare ogni individualità, restituiscono una efficace resa drammatica alla mitica fisicità delle antiche funzioni riposte nelle “dramatis personae” ( personaggi del dramma).
Medea e la Nutrice sono le due figure femminili su cui si avviluppa la segreta complicità dell’ intreccio: Medea, nella muliebre resa scenica di Caterina Costantini, trepidante di intensi chiaroscuri recitativi nell’amore di moglie e di madre evolvente nell’odio smisurato, riflette il dramma di una propria ancestrale ragione. La nutrice, interpretata da Lorenza Guerrieri con appropriato ruolo di sostegno, colei che sa consigliare e provvedere, è una sorta di archetipo del “corpus tragico” costituito da una compagine di impegnati attori comprimari: Massimo Lello (Giasone), Giancarlo Di Giacinto (Creonte) Alberto Mancini (Nunzio), Coro: Vita Rosati, Giulia Marcaccio, Alessandra Cedrone, Eugenio Difolco, Francesco Gargiulo.
Nel prologo ( che vogliamo riassumere per il lettore) la nutrice racconta con afflato l’antefatto della tragedia, quale evento già accaduto nel passato e che influenza in modo negativo gli eventi del presente: narra una “colpa” dovuta ad azioni che violano le ferree regole giuridiche dell’antica Grecia legiferate come “divine”, immutabili. Narra dell’eroe Giasone spedito dallo zio fino alla lontana Colchide, patria della maga, per recuperare un certo Vello d’oro, affinché plachi alcune sciagure che si abbattono sul regno. Passate molte mitiche avventure, Giasone giunge nella corte regale in Colchide, governata dal Re Egeo, e Medea, appena lo vede, s’innamora perdutamente di lui a tal punto da usare ogni sua abilità di maga per aiutarlo nella sua impresa. Concluso il compito, Medea fugge via verso la Grecia assieme al fratello minore, con l’amante Giasone e gli Argonauti . Egeo, venutolo a sapere, monta su tutte le furie e li insegue. Medea allora, per salvare se stessa e il suo innamorato, fa uccidere il fratello e ne getta i pezzi in mare in modo che il padre fosse costretto a fermarsi più volte per prendere i miseri resti.
Sono queste azioni delittuose tra due diversi popoli, narrate nell’antefatto, la causa per cui, anche a distanza di molti anni, i personaggi e la loro discendenza sono portati a commettere crimini o subire azioni malvage. E dunque sul proscenio sono scenograficamente installati una significante spada di bronzo, corta simile al gladio, mentre sui fondali di destra e di sinistra due grandi scudi rotondi di fattura greca. Sono elementi scenici semanticamente significanti che preludono il cruento gesto di Medea la quale, mossa da pulsione di morte alzando e roteando la spada, prefigura la vendetta: trafiggere i corpi non ancora cresciuti dei suoi due figli.
Anche il Coro, in questo allestimento, svolge in varie parti la funzione di vero e proprio corpo attorale coinvolto nell’azione scenica, ora oggetto di confidenze da parte di Medea, ora consigliere, e poi giudice severo, “distante” dalle sue nefande decisioni. Il coro euripideo, nella prima parte del dramma, biasima Giasone per il tradimento che non può condividere come un atto improntato a giustizia; a differenza del coro di Seneca che, nella seconda parte, si schiera apertamente contro Medea, le rinfaccia la sua condizione di Donna straniera, ne condivide la condanna: solo l’esilio potrà allontanarla da Giasone.
E’ questa duplice lettura registica che potenzia la complessa figura di Medea – Costantini, amalgamata nella dualità caratteriale del personaggio attraverso le differenze sostanziali dei due testi: Giasone, nel testo di Euripide, esalta l’umanità di Medea supplice, descrivendola come moglie tradita, dunque donna vittima la cui disperazione la condurrà a diventare furente. Mentre in Seneca, Giasone in preda all’angoscia si dichiara costretto a prendere tale decisione per amore dei figli e, dunque, ripudiando la moglie straniera Medea, può sposare Creusa, figlia di Creonte e re di Corinto.
Quest’accurato allestimento ci fa comprendere come attraverso i poemi omerici viene iniziata a livello letterario una vera e propria tipizzazione della donna: poco importa se queste erano virtuose come Alceste o Antigone, oppure considerate proterve, o vittime e carnefici al contempo come Clitennestra, Medea o Fedra.
Se si pensa a Medea come fratricida e infanticida, che si ribella al marito, sfida i sovrani, evidenziando indecifrabili inquietudini di dolore e di passionalità, si capisce come il lamento di Medea sia la prima contrapposizione ideologica della condizione femminile. Medea non parla per sé. Lei dice: “Noi donne…” soprattutto lo dice come madre che uccidendo i propri figli usa l’estrema violenza irrazionale contrapponendola alla razionalità patriarcale della civiltà greca.
Prolungati e sostenuti applausi elargiti da una calorosa platea, sia durante le scene di coinvolgente pathos, che alla fine della rappresentazione.