Vincenzo SANFILIPPO-Ipertrofia della parola (Teatro Vascello, Roma, “La donna bambina” di R.Cavosi)
La sera della prima
IPERTROFIA DELLA PAROLA
“La donna bambina” Testo e regia di Roberto Cavosi. Interpreto da Daniela Giordano. Con Giorgio Cantarini, Augustina Interlandi, Margherita Laterza, Antonio Monsellato, Angela Pepi, Barbara Petti, Guglielmo Poggi, Daniele Rienzo, Gianmarco Saurino, Marina Savino, Nicolas Zappa
Prod. La Fabbrica dell`attore – scene e costumi Maria Toesca, luci Domenico De Mattia, musiche Guglielmo Poggi, assistente alla regia Nicolas Zappa
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Tendenze, miti e tentazioni sono i ‘topòi’, longitudini letterarie dominanti questo fiabesco psicodramma, corpo drammatico d’insolita, contemporanea sofferenza per certe correlazioni con Il “Teatro Patologico”, poichè l’autore mette in scena un infantilismo borderline tra nevrosi e psicosi, crocevia di crudeltà e ingenuità che tutto distrugge. Una tensione psicologica spasmodica aleggia sul palcoscenico del Vascello, simile ad una elegia luttuosa che produce situazioni pulp intrise di humour nero dentro una favolistica umanizzata dell’immaginario fiabesco popolato di rane, sirene e Peter Pan, di sogno e crudeltà, in una periferia metropolitana.
Daniela Giordano interpreta “La donna bambina” attraversando l’efferata visionarietà di certe “ figure” dell’assassinio: matricida, mariticida, parricida, manifestando su questi temi un’eccellente prova satura di ombreggiature recitative, anche ironiche, attraverso la mutevolezza trasformista dei tratti tipici del personaggio, caratterizzato da reazioni isteriche – infantili, frivole regressioni, lazzi lascivi, egocentrismo, immaturità sessuale, mancanza di senso della realtà.
In questo diagramma compositivo, paragonabile a un groviglio mentale, l’ipertrofia della parola supporta la drammaturgia d’insieme dell’allestimento scenico, dove molteplici sono i piani compositivi di lettura con traiettorie simmetricamente opposte che s’incrociano attraverso delle convergenze, delle coincidenze impensabili ,delle stralunate simili per un viaggio fuori da ogni schema.
Roberto Cavosi costruisce una regia articolata che ben si presta al moltiplicarsi delle tematiche (in nuce) e delle relative interpretazioni. Tra queste: l’isolamento psichico in cui la donna bambina è precipitata, attenuato da archetipi fiabeschi per lenire i desideri più profondi, le ansie più segrete nei momenti depressivi e di paura. La fiaba, utilizzata come struttura narrativa, diventa contenitrice di questo dramma atemporale e paradigmatico, in cui desideri e timori, ansie e proiezioni fantasmatiche dell’’io profondo trovano espressione e ‘spiegazione’ illusoria che fanno riferimento alla condizione patologica in cui si realizza l’appagamento di desideri inconsci.Come pure l’innesto di materiale- scritturale riguardo al mito fabulatorio di un logos prelogico, oniricamente elaborato su modelli (o schemi mentali) della psiche, ove la tragedia contiene una forma di critica al modello familiare tradizionale.
L’intrecciarsi delle scene è ammirevole perché le azioni, di struggente impatto emotivo, propongono una bipolarità costantemente reversibile, riferita alla donna dominatrice e torturatrice, vittima e carnefice al contempo, in un legame di sadica dipendenza. Da questo strano impasto drammaturgico adombrato di selvaggia tragicità, l’autore potenzia la messinscena con citazioni mitologiche di singolare finezza psicologica, evidenziando, nelle invenzioni che porta sulla scena, i particolari più raccapriccianti dell’omonimo rapporto del mito di Medea, presunto modello evolutivo che da Euripide arriva alle cicliche elaborazioni di autori contemporanei (“Lunga notte di Medea” di Corrado Alvaro, 1949; “ La straniera Medea”, romanzo teatrale di Christa Wolf, 1966; “Medea” di Pasolini, 1969). Autori questi che hanno affrontato i miti “arcaici” del passato per stabilire i termini di un nostro presente che continua ad essere disgregato e scabrosamente conflittuale.
In questo spettacolo di grande impegno registico e invenzione fantastica, Roberto Cavosi riesce ad amalgamare una compagine di bravi attori, ricorrendo non solo alla favolistica come luogo della regressione infantile, ma soprattutto valorizzando la personalità di Daniela Giordano, evidenziandone la contrapposizione viscerale tra svenevolezza e sentimento di morte attraverso una recitazione autenticamente sofferta di donna umiliata e offesa e sacrosantamente vendicatrice.
Prolungati applausi dalla platea della prima.