Franco LA MAGNA- Nelle terre dello zio Tom (“12 anni schiavo”, un film di Steve Mc Queen)
Il mestiere del critico
NELLE TERRE DELLO ZIO TOM
12 anni schiavo (2013) di Steve McQueen
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Una messe di Oscar. Ben 9. A tanti almeno è stato (esageratamente) candidato l’ennesimo, scioccante, racconto della schiavitù dei “nigger” ripreso da “12 anni schiavo” (2013) dell’inglese di colore Steve McQueen (“Shame”, “Hunger”, ora primo regista nero a ricevere l’ambita statuetta), terribile e incredibilmente storia vera del povero Salomon Northup che nato libero – padre d’una famigliola felice, rapito con l’inganno da due negrieri (i quali sottraendogli i documenti, quindi l’identità, lo privano della condizione di uomo libero) e poi venduto come schiavo da un’abominevole e spietato mercante di carne umana – finisce maltrattato e scarnificato a frustate nella Louisiana schiavista delle piantagioni di cotone, divenendo “proprietà privata” d’un locale possidente.
Insopportabilmente ma realisticamente sadico (impiccagioni, frustate a sangue, stupri e continue umiliazioni accompagnano tutto il film), la triste e paradigmatica odissea dell’infelice Salomon, capovolge totalmente – ce n’è sempre bisogno, nonostante la “retoricità” del tema – il rapporto bianchi-neri, dipingendo i primi (“pie” donne custodi del focolare domestico, comprese) come un’accolita di aguzzini “benedetti da Dio” (tali si credono, leggendo la Bibbia e autoassolvendosi) e gli altri, secondo la “superiore” cultura americana, come sottospecie umana nata solo per essere sottomessa e a cui infliggere ogni sorta di sofferenze.
Le ignobili contraddizioni della legislazione USA del tempo – l’azione di svolge a metà del XIX secolo, per cui a Washington la schiavitù era legale, mentre a New York era già stata dichiarata fuorilegge – stanno alla base dell’infelice vicenda di Salomon e di quell’oscura pagina di schiavitù che nessun “mea culpa” pronunciato dagli States (perennemente in debito) con il capo cosparso di cenere riuscirà mai a cancellare. Svetta e consola l’eccezionale forza d’animo del protagonista, ripetutamente tradito dalla triste genìa dei bianchi ma alla fine da un bianco anche soccorso e salvato. Unica e sola voce “umana” levatasi contro il lercio letamaio ideologico ed esistenziale della Louisiana dei campi di cotone.
La chiusa strappalacrime con il ritorno in famiglia puzza di platealità strappalacrime e non mancano momenti di noia nonostante il plot rabbrividente, ma sono belli i canti di libertà intonati dalla comunità nera in procinto d’essere finalmente affrancata e di prendere coscienza dei propri diritti. Alla fine gli Oscar sono stati “soltanto” tre: Miglior film, Miglior attrice non protagonista (Lupita Nyong’o), Miglior sceneggiatura non originale (John Ridley). Interpreti: Chiwetel Ejiofor – Michael Fassbender – Benedict Cumberbatch – Paul Dano – Garret Dillahunt – Paul Giamatti – Scoot McNairy – Lupita Nyong’o – Adepero Oduye – Sarah Paulson – Brad Pitt – Michael Kenneth Williams – Alfre Woodard – Quvenzhané Wallis